“Nell’ottica della prevenzione e dell’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, ciascun Membro si impegna a rispettare, promuovere e attuare i principi e i diritti fondamentali sul lavoro, con particolare riferimento a […] l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato o obbligatorio, l’effettiva abolizione del lavoro minorile e l’eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione, oltre a promuovere il lavoro dignitoso”.
“Ciascun Membro si impegna ad adottare leggi, regolamenti e politiche che garantiscanoil diritto alla parità e alla non discriminazionein materia di impiego e professione, ivi compreso per le lavoratrici, come pure per i lavoratori e per altri soggetti appartenenti a uno o più gruppi vulnerabili o a gruppi in situazioni di vulnerabilità che risultino sproporzionatamente colpiti da violenza e molestie nel mondo del lavoro”.
Così recita la Convezione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) n. 190 in due dei suoi articoli in tema di principi fondamentali, ratificata e approvata definitivamente dalla Camera (settembre 2020) e, più di recente, dal Senato (13 gennaio 2021), entrando a pieno titolo a far parte dell’ordinamento giuridico italiano (il d.d.l. rappresenta il disegno di legge, cioè quel testo con cui viene progettata l’emanazione di una successiva legge, la quale deve seguire le linee guida, i principi emanati dal disegno iniziale).
È una Convenzione dagli intenti forti e decisi, voluta perché “la violenza nei confronti delle donne sul luogo di lavoro riguarda tutti noi. Certamente le vittime sono coloro che soffrono maggiormente, ma anche i loro colleghi e le loro equipe lavorative subiscono conseguenze. La Convenzione internazionale è la soluzione giuridica che fa in modo che uomini e donne non subiscano violenze e molestie sul lavoro. Mi appello agli Stati membri perché ratifichino questa Convenzione. Tutti noi dobbiamo fare la nostra parte al fine di ottenere un cambiamento reale per la parità di genere”; così la presentava Helena Dalli, Commissaria per l’uguaglianza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
La stragrande maggioranza dei 187 Stati membri ha approvato la Convenzione internazionale sul presupposto – purtroppo (!) – che la violenza e le molestie siano una realtà pervasiva che sta colpendo indistintamente tutti i Paesi, le professioni e le modalità di lavoro.
Sono milioni le persone in tutto il mondo che subiscono violenze e molestie sul lavoro e molte, moltissime di queste sono donne. Questo non fa altro che aumentare il gap della discriminazione di genere e minaccia ogni tentativo di ottenere le parti opportunità nel mondo del lavoro; ne risentono in modo determinante le relazioni professionali, l’accesso, il coinvolgimento e la progressione delle lavoratrici nel mercato, la loro salute, la loro produttività, la qualità dei servizi forniti e la reputazione delle imprese stesse, “macchiate” dell’onta di non essere state in grado di garantire loro il diritto alla parità.
Giusto per parlare con dati alla mano: secondo l’indagine svolta dall’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, una donna su due dichiara di aver subito una qualche forma di molestia almeno una volta dall’età di 15 anni.
E ancora, in tutti i casi segnalati di molestie sessuali, nel 32% dei casi il molestatore è collegato al luogo di lavoro della donna: spesso il datore di lavoro, il collega o, addirittura, un cliente.
I dati che riguardano l’Italia confermano la diffusione di tale fenomeno, con circa 1,4 milioni di donne che dichiara di esserne stata vittima durante la vita lavorativa, con l’incidenza maggiore al momento del colloquio o in fase di assunzione.
Ma ciò che desta una certa preoccupazione è che quasi l’81% delle vittime intervistate non ne ha mai parlato con nessuno sul posto di lavoro e che meno dell’1% ha denunciato l’accaduto alle forze dell’ordine.
E forse il “lavoro” maggiore va fatto esattamente su questo aspetto: occorre dar più fiducia alle lavoratrici e ai lavoratori-vulnerabili, tanto da sentire di avere “il coltello dalla parte del manico” qualora si trovino in situazioni di abuso: occorre insegnare loro a denunciare molestie e violenze, senza essere sopraffatti da pensieri quali “il datore si lavoro si vendicherà”, “non mi crederanno mai”, “come faccio a dimostrarlo, sono l’unica ad aver assistito a quelle chiamate” e così via.
La Convenzione vuole essere prima di tutto strumento di prevenzione e di tutela nei confronti di lavoratrici e lavoratori a prescindere dalla tipologia del loro contratto di lavoro e, data la natura mutevole del mercato del lavoro, si proietta verso gli abusi che vanno oltre il luogo fisico di lavoro, estendendosi a tutte le circostanze in cui si possono verificare episodi di violenza e molestia – in occasione del lavoro, in connessione con il lavoro, che scaturiscono dal lavoro – includendo anche tutti i casi che si verificano attraverso gli strumenti telematici (e-mail, messaggi, chiamate).
E la definizione di molestie e violenze è la più ampia possibile: include non soltanto l’abuso fisico, ma anche quello verbale, i fenomeni di stalking e di mobbing, di comportamenti e pratiche che provochino – o mirino a provocare – danni fisici, psicologici, sessuali o economici.
E ora, letto tutto questo, quanti episodi saltano alla mente? Ebbene mi sento di potermi rivolgere a lavoratori e, soprattutto, a datori di lavoro ricordando che lavorare “per” qualcuno non è essere “al servizio”, ma è collaborazione, è coinvolgimento, è creare nuovi obiettivi comuni, è lavorare “insieme”.
Il che è tutta un’altra cosa.
Chiara Aldegheri
Dottoressa in giurisprudenza