Tribunale di Palmi, sentenza n. 6/2021
Può costare caro (quantomeno in termini economici) nascondere moglie o marito “nell’armadio” e dichiarare nei propri profili social che il consorte non è mai esistito o non esiste più.
Così ha deciso il Tribunale di Palmi con la sentenza pubblicata il 7 gennaio: chiunque celi il proprio matrimonio per tentare di “cuccare” online rischia di vedersi accollato l’addebito della separazione; in altre parole, con tale comportamento ci si “prende la colpa” dell’eventuale fine del matrimonio, perché colpevoli di aver tradito i doveri coniugali – fiducia reciproca e unione spirituale – e reso intollerabile e non più proseguibile la relazione.
Le conseguenze dell’addebito sono prevalentemente di carattere patrimoniale: il coniuge “colpevole” di aver, con il proprio comportamento, messo fine al matrimonio perde il diritto di ricevere un eventuale assegno di mantenimento (conserva il diritto agli alimenti solamente in situazione di bisogno), perde i diritti successori nei confronti del coniuge (in altre parole non può far valere il suo stato di (ex)coniuge nella divisione ereditaria, diritto che altrimenti in essere fino alla pronuncia di divorzio) e perde il diritto alla pensione di reversibilità e alle altre indennità e prestazioni previdenziali eventualmente riconosciute al coniuge.
La situazione di cui si sono occupati i Giudici calabresi è quella di una donna che chiedeva la separazione dal marito perché non ne poteva più del disinteresse progressivo da lui dimostrato, del suo utilizzo eccessivo del cellulare, delle sue uscite anche in ore notturne, e, dulcis in fundo, della descrizione Facebook di lui “single e mi piacciono le donne”.
Magari quest’ultima circostanza ci farà sorridere.. eppure per il Collegio che ha deciso sulla separazione è stata determinante.
Proprio in tema di infedeltà coniugale, la Corte di Cassazione ha già osservato da tempo che ai fini dell’addebito di una separazione non rilevano esclusivamente le relazioni extraconiugali in senso stretto, ma anche tutti quei comportamenti che possono giustificare da soli la lesione della dignità e dell’onore dell’altro coniuge; l’obbligo di fedeltà che scaturisce dal matrimonio, quindi, si avvicina molto al concetto di lealtà, quale impegno a non tradire la fiducia reciproca. E, per far ciò, non è necessario l’aver intrattenuto relazioni “clandestine”. Basta molto meno.
Secondo il Tribunale di Palmi, infatti, la circostanza relativa al profilo Facebook del marito della donna – il quale si definiva “single” con l’annotazione “mi piacciono le donne” – in un periodo in cui ancora vi era coesione familiare, è prova di un atteggiamento lesivo della dignità della moglie, in quanto, pubblicamente e fin troppo palesemente, rappresenta un modo d’essere e uno stato d’animo totalmente incompatibile con un leale rapporto di matrimonio.
Vero è che, in aggiunta a ciò, il marito della donna che ha chiesto l’addebito della separazione, ha poi intrattenuto una frequentazione extraconiugale che ne ha pregiudicato definitivamente il matrimonio, ma comunque tale aspetto è stato ritenuto secondario a quello dell’essersi reso “disponibile” online, quando libero non era e disponibile non avrebbe dovuto esserlo.
E, a conti fatti, proprio nell’era del diritto all’uso di internet e dei social, questa parte di sentenza spicca e incuriosisce poiché per la prima volta la descrizione contenuta nel profilo Facebook ha giocato un ruolo determinante nel condannare l’uomo quale “colpevole” della separazione, in combinazione con altri elementi e circostanze.
Ebbene, pur ricordandoci che la “colpa” non viene mai riconosciuta per un singolo elemento, forse è ora di prestare attenzione a ciò che immettiamo in rete o, forse, dovremmo cominciare a rispolverare valori e priorità. Magari ricordandoci che la famiglia non dovrebbe mai essere tradita a fronte di futili interessi individuali.
Chiara Aldegheri
Dottoressa in giurisprudenza