Le avvocate sotto i cinquanta sorpassano gli uomini,
nelle aule il 55% dei giudici è donna.
Marta Cartabia – di recente nominata a capo del Ministero della giustizia – ha già all’attivo il riconoscimento di essere stata la prima presidente donna della Corte costituzionale, eletta dalla consulta nel dicembre 2019, dopo esserne stata vicepresidente dal novembre 2014 e nominata giudice della stessa nel settembre 2011 per volere dell’allora Presidente della Repubblica Napolitano.
E le sue nomine, così come si sono susseguite, confermano il trend di equilibrio di genere che investe magistratura, avvocatura e notariato – un risultato “quasi” completamente raggiunto: manca ancora la completa parità nelle posizioni apicali delle istituzioni stesse, come alla Corte di Cassazione; il c.d. “soffitto di cristallo” (l’insieme delle barriere sociali, culturali e psicologiche che impediscono alle donne di avanzare nelle proprie carriere) non è ancora del tutto sgretolato, ma cominciano ad intravedersi le prime crepe. E paiono veramente lontani, lontanissimi i tempi in cui Lidia Poet si è vista annullare la propria iscrizione all’ordine degli avvocati dalla Corte d’appello di Torino e, poi, dalla Corte di Cassazione sul finire del 1800, per le quali:
“sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra – i Tribunali – agitarsi in mezzo allo strepitio dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano […] Non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra”.
Lidia Poet fu la seconda donna italiana a laurearsi in giurisprudenza nel 1881 a pieni voti presso la facoltà di Torino con una tesi proprio sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne; si era iscritta alla pratica forense e aveva superato al primo tentativo l’esame di procuratore legale (non vi erano leggi che impedivano alla donna di studiare e conseguire tali titoli, ma fino ad allora era semplicemente consuetudine che tutto ciò che riguardasse la vita sociale fosse “roba da uomini”).
Ma dal 9 agosto 1883, quando l’iscrizione all’ordine fu accettata e Lidia poté esercitare l’avvocatura, non passò molto tempo prima che il procuratore generale del tempo mettesse fine a “tale scempio”: denunciò la Poet alla Corte d’Appello di Torino, che, con la sentenza dell’11 novembre, tolse a Lidia la possibilità di esercitare; una donna non avrebbe mai potuto essere iscritta all’ordine degli avvocati. Inutile dire che il ricorso alla Corte di Cassazione proposto poi da Lidia andò a finire nello stesso modo.
E le motivazioni sono le più chiare possibili: se una donna avesse esercitato la professione si sarebbe persa completamente la serietà dei giudizi, perché le donne vestono “strano” e si acconciano i capelli in modo “bizzarro”. Non solo. Se mai una avvocata di bella presenza avesse mai vinto una causa, il giudice sarebbe stato visto con sospetto perché ammaliato dalla bellezza femminile, più che dalla sua bravura.
Per i 37 anni successivi alla sua cancellazione dall’albo degli avvocati in realtà Lidia non smise mai l’esercizio della professione, anche se formalmente risultava solamente una “collaboratrice” nello studio legale del fratello Enrico. Si specializzò nella tutela dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. E perseverante, non ebbe pace finché nel 1919 il Parlamento approvò la Legge Sacchi che autorizzò le donne a esercitare le professioni dei pubblici uffici, ad esclusione della magistratura, della politica e dei ruoli militari.
E a distanza di oltre cento anni, è stata raggiunta la parità di genere solamente nella magistratura (con ancora evidenti difficoltà per quanto riguarda la Corte di Cassazione).
In ogni caso, ottenuta l’autorizzazione, Lidia tornò ad indossare la toga e a 65 anni poté utilizzare a pieno il titolo di avvocato. Due anni più tardi fu nominata presidente del Comitato italiano pro-voto delle donne e a 91 anni riuscì a coronare le battaglie di una vita intera, andando a votare alle prime elezioni a suffragio universale tenutesi in Italia nel 1946.
Cosa è rimasto del “tornado Lidia”? Nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea costituente, il deputato democristiano Antonio Romano disse che “la donna deve rimanere regina della casa. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa”.
Nel 1957 l’allora presidente onorario della Corte di Cassazione Eutimio Ranelletti scrisse addirittura un libello, nel quale sosteneva apertamente che la donna “è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”.
E solo con il decreto legislativo del 2006 è stato emanato il Codice delle pari opportunità tra donne e uomini che dovrebbe avere la funzione di promuovere le pari opportunità tra i generi, ovverosia sradicare ogni discriminazione fondata sulla diversità di sesso.
La storia di Lidia e le frasi di Antonio Romano e di Ranelletti offrono mille spunti di riflessione. Penso a quante – credo a tutte – sia successo di sentirsi rivolgere espressioni che somigliano a quelle riportate, che ancora portano avanti quei duri giudizi e pregiudizi che Lidia ha tentato, strenuamente, di abbattere. Ma per abbatterli occorre ancora tempo e soprattutto comprensione. Vorrei lasciare uno monito a tutti i lettori uomini, a quella metà del mondo che, se combattesse assieme alle donne questa battaglia di equità, getterebbe le basi per una società – finalmente – completa.
Chiara Aldegheri
Dottoressa in giurisprudenza