Cari amici, care amiche questa volta ci riporta nel “Poian de ‘na olta” la storia del “Nino Tao, contadin musicante e casador”. Adelino Ferrari, classe ’20, detto ”Nino” del casato dei “Tao”, perchè così era soprannominato anche suo papà e suo nonno, è il primo figlio dei contadini Silvio e Silvia Alessandra Venturi che dopo di lui avranno anche Maria, ’26 e Armida Teresa, ’29. “Nino” nasce nella casa paterna in “Veronetta” (via Vittorio Veneto) e cresce nel “tristo” periodo tra le due guerre. Sin da bambino aiuta i genitori nel duro lavoro dei campi e come unico divertimento segue il papà quando va a caccia, passione che eredita (assieme alla sua doppietta, artigianale ma con canne Krupp) e che poi praticherà praticamente per tutta la vita. “Nino” frequenta e finisce le scuole elementari in paese dove ha per maestro l’arcigno e manesco don Giuseppe Benamati che se non altro ha il merito di avviarlo alla “musica”. A neanche dieci anni, seppur saltuariamente e nei ritagli di tempo lasciati liberi dal lungo ed estenuante lavoro dei campi e della stalla (ricordo che allora si faceva tutto a mano, dalla semina allo “strasar”, lo spargimento del letame, dallo sfalcio alla raccolta di grano e fieno, dal governo degli animali alla mungitura, ma ci sarà di sicuro occasione per tornare sull’argomento), “Nino” studia musica e suona nella, già anche allora rinomata, banda musicale del paese. E qui consentitemi un piccolo excursus. La Banda, o meglio, prima la “Musica” poi la Banda ed infine il Corpo Bandistico e Majorettes “Santa Cecilia” di Povegliano, è una delle formazioni più antiche dell’intera provincia. Fondata addirittura in era napoleonica, nel lontano 1812, vanta, nella sua bicentenaria storia, innumerevoli premi, e citazioni. La Musica di Povegliano infatti è rappresentata nel dipinto dello storico “Corteo del Carnevale di Verona” dell’anno 1844. Ma, tornando a “Nino”, come spesso accade la scelta dello strumento più che personale è dovuta alla contingente necessità della banda e tuttavia per gli strumenti a fiato conta molto anche la conformazione delle labbra (che devono essere sottili). Come è che sia stata la sua scelta poco importa certo è che quando “Nino” ha incominciato a suonare la tromba di sicuro non poteva sapere che probabilmente proprio a quella scelta deve la vita. E ci arriviamo subito. Dopo anni di diuturno lavoro nei campi, mentre è già in corso la 2^ Guerra Mondiale, il 6 gennaio del ’41 “Nino” è chiamato alle armi. Lasciato senza indugio: lavoro, casa e famiglia, assieme al suo amico Giuseppe Poletti, detto ”el Ragno”, si presenta in Bolzano al Battaglione Misto Genio per la Divisione Motorizzata “Trento”. “Nino” appena terminato il periodo di addestramento viene trasferito al Deposito del 4° Reggimento Genio in Verona e proprio mentre si trova già inquadrato, zaino al piede con destinazione Fronte Orientale (Russia), ha un vero e proprio colpo di fortuna. Cercano un trombettiere per la Banda degli Alpini e chiedono < chi sa suonare la tromba?>. “Nino” alza la mano ed invece di partire per il Don si ritrova nella caserma Huber di Bolzano. Lì oltre alla scuola di musica ed alle attività con la banda però, “Nino” ha anche l’incarico di “attendente” del comandante della caserma, il colonnello Ruta, circostanza che si rivelerà una sua ulteriore fortuna. Infatti è proprio quel colonnello che l’8 settembre del ’43 lo mette al corrente del precipitare degli eventi e gli consiglia di scappare e tornare a casa. Il colonnello non ha abiti borghesi da dargli se non quelli di una delle sue figlie ed è così che ”Nino”, vestito da donna e a piedi, si avvia verso casa. Il ritorno è stato di per se una vera avventura. Per evitare rastrellamenti e posti di blocco viaggia principalmente di notte mentre di giorno dorme nascosto in pagliai o all’addiaccio e per unico sostentamento ha solo qualche mela o dei grappoli d’uva acerba. Dopo più di dieci giorni, sfinito e febbricitante, riesce a tornare a in famiglia a Povegliano. Solo il tempo di rifocillarsi e rimettersi un po’ e poi di nuovo alla macchia per sfuggire alle Brigate Nere che per catturare quelli come lui dichiarati “sbandati” non esitano a torturare i loro familiari. “Nino” con l’aiuto di parenti ed amici per ben quindici mesi riesce a rimanere “uccel di bosco” sino al sospirato 25 aprile del ’45. Considerato dalle autorità militari tuttavia formalmente in servizio dall’8 settembre del ’43 al 25 aprile del’45 nella stessa data è posto in congedo e finalmente può tornare a casa, al lavoro nei campi alla “musica“ ed alla caccia la sua passione preferita. Ben presto decide di metter su famiglia e già nel ’46 si sposa con Teresa Tinazzi che gli darà Silvio e Lino. Seguono però gli anni della modernizzazione in cui, l’economia, il modo di vivere e di lavorare delle persone e l’intera società sono in grande trasformazione e così la sua piccola campagna da sola non gli consente più di tirare avanti. “Nino” allora cerca un altro lavoro. Nel ’64 fa domanda e viene assunto come Operaio Civile del Ministero della Difesa ed assegnato al CERACOMILES (Centro di Raccolta Collaudo e Smistamento Materiali di Commissariato) di Verona che ha i propri magazzini nella caserma Santa Marta, quella di via Cantarane. Per anni otto ore di lavoro al giorno a caricare e scaricare merci e riordinare magazzini, ma prima e dopo le quali manda avanti campi e stalla, aiutato invero anche dai figli, “man man” che crescono e dalla “subentrata” meccanizzazione. Proprio anche per, e con, i figli, alla fine degli anni settanta, vende la vecchia casa e si costruisce nei suoi campi, adiacenti a Via San Giovanni, una “trifamiliare” con relativi stalla, “barchessa” e pollaio quest’ultimo vero e proprio “regno” di sua moglie Teresa che vi alleverà animali da cortile in quantità: galline, polli, conigli, colombi, anatre e faraone. Il mestiere del contadino “Nino” lo ha da sempre nel sangue e fin che ha potuto ha continuato a farlo anche ben dopo essere andato ufficialmente in pensione. Di certo nel tempo non ha trascurato la banda del paese nella quale ha suonato per più di quarant’anni come lo dimostra il relativo diploma rilasciatogli dalla stessa. Semmai con un certo rammarico l’ha avuto quando non si è visto riconoscere, nel libro che ne racconta la storia, la sua personale dedizione e partecipazione. Anche nella caccia “Nino” si è preso le sue soddisfazioni e nel 2005, alla sua 64^ licenza, è stato festeggiato come più longevo veterano del paese ancora in attività. Diversi sono stati i suoi “compagni di caccia” ma il suo più assiduo “socio” è stato di sicuro “el Nicio” (la cui storia vi ho già raccontato). Da quando sono andati entrambi in pensione quasi ogni sera si ritrovano, seduti sotto il portico di via San Giovanni, a discutere di avvistamenti di selvaggina, strategie di caccia, virtù e difetti dei propri cani. Naturalmente quando poi si scontrano due caratteri forti, più testardo e determinato “el Nicio” più possente e sanguigno “el Nino”, non possono che scoccar scintille. Ma così come sono repentine le loro liti, condite da reciproci svariati insulti, altrettanto rapide sono le loro rappacificazioni sancite da abbracci e sostanziose colazioni. E come detto non si può parlare della caccia senza parlare di cani. Il “Nino”, che è un ottimo tiratore, ha avuto nel tempo dei veri campioni di bellezza e lavoro tra cui la setter inglese Nike, figlia diretta del mitico pluricampione nazionale ed internazionale Lopez della Bassana, ma non solo. Non è facile avere nel tempo sempre cani con uno standard elevato e per prendere in prova, per poi eventualmente acquistare anche dei segugi più versati per la caccia alla lepre, el “Nino e el Nicio” innumerevoli volte si recano, in giornata, in provincia di Varese da dei parenti Tinazzi veri esperti nel settore. Come al solito ci vanno con la “Pandina” del “Nicio” ed una volta accadde loro il fatto che vi voglio raccontare. Presa l’autostrada a Sommacampagna e giunti al casello di Gallarate, in uscita prendono uno dei primi varchi ad alta automatizzazione. Fermatisi all’altezza del “gabioto” dal finestrino con la mano porgono il biglietto ma una voce femminile intima di <inserire il biglietto>, i due si guardano e si dicono “cosa vola sta chi, dighe che sen entrè a Sommacampagna”. Detto e fatto ma poco dopo la voce intima ancora <inserire il biglietto> e loro di nuovo “questa no la capise gnente dighelo ancora che semo entrè a Sommacampagna” ed intanto dietro la fila si allunga per fortuna arriva in loro soccorso uno del personale del casello a risolvere il problema. L’era “el Poian de ‘na olta” quando par mantegnar la famea en laoro l’era poco e anca de quando se qualche olta tra amici volaa parole grose no se ghe badaa pì de tanto”.
Alla prossima Rico Bresaola.